La tradizione veneziana vuole che il 25 marzo si ricordi la fondazione della famosa città lagunare, divenuta in breve tempo una tra le città più importanti d'Europa e unica nel mondo per il suo assetto urbanistico ed architettonico.
Ben presto Venezia divenne anche capitale di una Repubblica dalla storia senza eguali al mondo, con bandiera, territorio, moneta e leggi.
La nascita della città lagunare si fa risalire al 25 marzo 421 quando a Rivo Alto venne eretta la chiesa di San Giacomo, sulle sponde dell'attuale Canal Grande, per volontà e impresa di un famoso carpentiere quale voto per essersi salvato da un incendio.
Nel giorno del compleanno della città lagunare vi propongo un recente racconto dell'amico e architetto Franz Falanga. Una una storia nostalgica, una di quelle storie che con il passare del tempo andrebbero altrimenti perse e dimenticate.
NOSTALGIA CANAGLIA
Sto parlando della mia nostalgia di
Venezia. Ieri sera, prima di andare a nanna, mi sono fatto un nostalgico
ripasso di fatti che mi legano a filo doppio a Venezia. Pensavo alla parola “zattere”.
All’oggi le Zattere sono una
bellissima fondamenta che dà sul Canale della Giudecca, che è costellata da
deliziose pensioni, da gran bei bar dove con i miei colleghi dell’IUAV,
tantissimi anni fa si andava a berci qualche ombra e a lumare le pupe. Alla
luce di questa mia nostalgia, vorrei raccontarvi perché si chiamano
“Zattere”.
Come molti di voi sanno, le fondazioni
dei palazzi veneziani sono formate da centinaia di pali conficcati nel fondo
della laguna. Questi pali i veneziani andavano a tagliarli nei boschi sulle
alpi, dalle parti di Feltre, preferibilmente nelle zone boscose esposte a nord.
Era importante che gli alberi fossero, fin dalla nascita, sottoposti ad
una grande umidità. Tagliati i tronchi, formavano con essi delle grosse
“zattere” che poi lasciavano andare nel Piave e negli altri fiumi che
sfociavano nei dintorni di Venezia. Arrivate in laguna, le zattere venivano
tirate sul bagnasciuga del Canale della Giudecca e colà lasciate per
almeno un paio di anni, perchè in questo modo, ogni sei ore venivano ricoperte
dall’alta marea per poi tornare in secco con la bassa marea. Questo va e vieni
di acqua, faceva, come dire, abituare i tronchi a vivere e a stagionarsi
nell’acqua senza soffrire.
Passati gli anni era arrivato il
momento di piantare sul fondo del mare, in laguna, questi tronchi uno aderente
all’altro. E qui la grande professionalità, il magnifico magheggio dei
piantatori di tronchi. Si usava una barcone con il fondo piatto dove
venivano caricati diversi tronchi. Gli uomini che lavoravano su ogni barcone
erano due. Ogni barcone aveva una grossa pietra cilindrica del diametro di una
quarantina di centimetri, pesante una mezza quintalata. La pietra era fasciata
da due cravatte di ferro, alle quali erano a loro volta saldate quattro
maniglione, due per parte. Con una tecnica particolare della quale vi parlerò
un'altra volta, questi due piantatori di pali prendevano la pietra tenendola
per le maniglie e picchiavano su un accrocco di pali legati a prua in una
maniera particolare e così, bum bum, un paio di mazzate dietro l’altra,
infilavano i pali nel fondo marino.
A qualcuno piacerà sapere che
canzone usavano cantare i battipali durante le loro lunghissime ore di pesante
fatica. Vi scrivo qui le nobili parole di questa canzone, che potrebbe essere
considerata l’inno ufficiale dei piantapali così come la Marsigliese è l’inno
ufficiale della Francia.
Eccovi dunque il testo: “Il cueo de mio
nonno ha tratto un subio, bum bum (due colpi di pietra) che i pescaori in mar
credea marubio, bum bum, il cueo de mio nonno ha tratto un subio, bum bum, che
i pescaori in mar credea marubio”.
Pausa e poi si ricominciava a
picchiare sull’accrocco, finchè il palo non era stato infilato in acqua e nel
fondale a regola d’arte.
Per i non veneziani traduco le gentili
parole della canzone. “Il culo di mio nonno ha fatto un peto, che i
pescatori in mare credevano fosse un maremoto, il culo di mio nonno ha fatto un
peto eccetera eccetera.
Ecco che cosa ho pensato ieri sera in
preda ad una furibonda nostalgia della venezianità che conosco bene così come
ben conosco la baresità.
franz falanga
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