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giovedì 5 dicembre 2019

La Basilica di Santa Maria della Salute a Venezia (ricordando Franz Falanga)

Alle pareti del mio salotto ci sono pochi quadri. A dire il vero sono quasi tutte foto, ma uno è un quadro che fin da piccolo mi ha fatto compagnia nella casa dei miei, ed è l'unico che ho voluto portare con me una volta uscito di casa. 
Il quadro di Aldo Caselli rappresenta la Basilica della Salute a Venezia. 

Aldo Caselli - Basilica della Salute 
tecnica materica 40x50 - 1990

E' proprio partendo dalla foto di questo quadro, durante una delle conversazioni con l'amico architetto Franz Falanga che era nata in lui l'idea e la voglia di scrivere una sorta di libro dedicato alle architetture della città lagunare.
Purtroppo questo lavoro non si è mai concluso, almeno da quanto mi risulta, nonostante esistesse già una copertina, dei testi, delle fotografia ed un abstract del libro dedicato a Venezia e che doveva prendere il nome di Venezia raccontata e che mi vedeva tra i coautori, più per la generosità di Franz. che voleva ringraziarmi delle chiacchiere e degli spunti di confronto, oltre che per alcune parti scritte e delle fotografie che mi aveva "commissionato".

Questo acquerello di Franz Falanga rappresentante Venezia,
doveva diventare la copertina del testo Venezia raccontata.

E così uno dei punti da visitare a Venezia e da raccontare nella guida era proprio La Basilica di Santa Maria della Salute.
Così ho deciso di pubblicare un piccola parte dello scritto e alcuni schizzi realizzati da Franz per parlare di questa opera architettonica, affinché il suo lavoro non vada del tutto perso.
La Basilica di Santa Maria della Salute è stata progettata dall’architetto Baldassarre Longhena  sulla estrema punta della Dogana, e, come dicono le cronache, è stata consacrata dal Patriarca di Venezia Alvise Sagredo nel 1687. I veneziani la chiamano familiarmente la Salute e così nelle prossime volte potrebbe capitare anche a me  di chiamarla così.  Questo capolavoro assoluto dell’architettura barocca veneziana è emblematica di come il progettista sia stato capace di tenere in profonda considerazione il luogo dove avrebbe progettato la chiesa, luogo che, a sua volta, avrebbe necessariamente condizionato la forma della chiesa in questione. 







E così ogni volta che sono a tavola, sul divano o gironzolo per il soggiorno e lo sguardo si posa sul quadro appeso al muro, mi viene in mente questo progetto, i suoi schizzi, mi vieni in mente tu architetto Falanga

Ciao Franz

sabato 7 luglio 2018

L'ultimo viaggio di Franz Falanga!

Il 17 aprile 2018, ci ha lasciato l'amico e architetto Francesco Falanga detto Franz


Seppur non da molti anni ho avuto il piacere di conoscere Franz Falanga per una grande passione in comune: l'architettura. Da quel momento è nata subito una grande intesa ed una forte amicizia.

Franz Falanga era infatti un personaggio eccentrico e poliedrico. Architetto, musicista jazz e scrittore, radioamatore (link).

Laureato a Venezia in architettura, è stato professore all'Accademia di Belle Arti di Venezia e di Bari. Ha sempre combattuto contro la cancellazione del senso della storia che produce più danni di una guerra specialmente alle ultime generazioni.


Grazie Franz degli incontri, delle chiacchierate, degli spunti di riflessioni su tanti, tantissimi temi, dalla musica alla politica, dall'architettura al disegno, dalla scrittura alle radio.
A questo link potete trovare una serie riflessioni e racconti fatti insieme da me e Franz (link).

Nella giornata di oggi 07 luglio 2018, secondo le sue volontà, le ceneri dell'amico Franz Falanga sono state disperse tra il Monte Tomba e Venezia.





Ciao Franz... e grazie!
Buon viaggio...

martedì 4 aprile 2017

L’ARCHITETTURA SECONDO ME di Franz Falanga

Con piacere ospito ancora una volta l'amico e architetto Franz Falanga con una nuova riflessione sulla progettazione e sull'architettura.


L’ARCHITETTURA SECONDO ME
Chi per mestiere costruisce involucri e oggetti per l’uomo ha il dovere di conoscere che tipi di persone andranno a vivere (non ho detto abitare) negli involucri medesimi. Basterebbe, agli inizi degli studi, insistere sul concetto che gli studenti architetti devono assolutamente rendersi conto che le loro future modificazioni formali del territorio dovranno servire a farvi vivere le persone, e non a farle colà abitare. 
Conoscere le persone e i loro meccanismi dello stare insieme per permettere loro di vivere degnamente nell’architettura pensata e costruita, l’analizzare i loro modi di comportarsi, le loro maniere di rapportarsi alla cronaca e alla storia è operazione fondamentale per il progettista. Lo sciocco e aristocratico rifiuto della conoscenza diretta della realtà quotidiana e delle mutazioni che l’hanno modificata dalle fondamenta ha sempre generato e continuerà a generare mostri nel campo dell’architettura e quindi della società che ne usufruisce. 
Parlo delle mutazioni che, dall’immediato secondo dopoguerra, hanno caratterizzato la vita italiana, mutazioni che hanno ovviamente contribuito a modificare la storia solidificata delle città, che non è altro che l’urbatettura e il design, a sua volta a scala più piccola. 

franz falanga


martedì 7 febbraio 2017

IL MESTIERE DELL’ARCHITETTO secondo l'architetto Franz Falanga

Ancora una volta ho il piacere di ospitare nel blog l'amico e architetto Franz Falanga, già professore presso l'Accademia di Belle Arti di Venezia e Bari. L'occasione è una sua riflessione interessante quanto irriverente attorno al tema dell'architettura, o meglio dell'architetto.



IL MESTIERE DELL’ARCHITETTO

Per prima cosa, “mestiere” nobile parola è. Oggi vorrei raccontarvi le caratteristiche che, secondo me, dovrebbe avere un architetto. E’ lapalissiano che, se dovesse averle tutte, non necessariamente sarebbe un buon architetto, nel migliore dei casi sarebbe un discreto mestierante.

La prima regola è: “leggere, leggere, leggere, leggere, leggere, leggere, leggere” non importa che cosa, qualunque argomento va bene. 

La seconda regola è: “conoscere il meglio possibile la vita e le abitudini e quant’altro degli esseri viventi (fra i quali ci sono anche gli esseri umani) che dovranno vivere nei contenitori progettati dall’architetto”. Quando parlo di contenitori parlo di appartamenti, di case, di palazzi, di  città.

La terza regola è: “il nemico mortale di ogni architetto è la presunzione, sia la sua che quella degli altri”.
La quarta regola è: ”avere spiccatissimo il senso della storia e combattere alla morte quelle persone che tentano, quasi sempre con successo, di “cancellare” il senso della storia dalle altrui coscienze, e, ahinoi, ce ne sono moltissime e generalmente ci riescono”.

La quinta regola è: “osservare con estrema attenzione le “mutazioni” che gli architetti, lei o lui, noteranno nel corso della propria esistenza e cercare di capire se queste mutazioni sono verso l’alto o verso il basso, va da sé che bisognerà sforzarsi di ben capire perchè sia nata la mutazione medesima”.
La sesta regola è: “avere sempre degli ottimi rapporti con i muratori, con gli ebanisti, con i fabbri, con i tecnici idraulici e con i tecnici elettrici e quant’altri, che, nel loro campo, certamente ne sanno molto ma molto più dell’architetto stesso.         

La settima regola è: “avere il senso delle cose”.

L’ottava regola è: “se vi dovesse capitare la progettazione di qualche oggetto che non avete mai incontrato nel corso del vostro lavoro quotidiano, prima di rifiutarlo o di accettarlo, chiedete informazioni sull’argomento, senza avere nessuna remora, rivolgendovi a colleghi di grande competenza e di grande bravura. Ricordati sempre di farsela con quelli migliori di te e di offrirgli da bere”.

La nona regola è: “riuscire a comprendere il momento quando un qualsivoglia progetto, è terminato ed è quindi giunta l’ora di metterlo in atto”.

La decima regola è: “non abbiate timore di dire NO a qualche cliente. Ricordarsi sempre quello che il grande architetto Sullivan disse ad un suo cliente “signore, lei avrà quello che NOI (dello studio) le daremo”.    
Ed infine l’ultima regola, ma non per questo meno importante delle altre: “ anche a costo di morire di fame, mai accettare o dare  mazzette”.

Ce ne sono ancora centinaia di altre regole, ma più o meno, queste sono quelle fondamentali. Se si osserveranno questi principi, si potrebbero evitare errori di grammatica, non garantisco che si possano evitare errori di sintassi, e vi garantisco una vita di stenti. Ricordatevi che gli architetti mediocri, ignoranti, corrotti e corruttori, quelli sì che diventano ricchissimi. Così come vi  consiglio di stare molto attenti a quei vostri colleghi che vi dovessero dire: “non ho più il tempo di leggermi un buon libro. Così, en passant, sporcarsi le mani con la politica, partecipare,  partecipare, partecipare. 

E adesso auguri! Sono cazzi vostri! 
franz falanga

lunedì 25 luglio 2016

La genesi della forma secondo Franz Falanga


Da molto tempo l'amico e architetto Franz Falanga mi tedia (positivamente) con le sue argomentazioni...
Una di queste è la genesi della forma.

Varie sono le sue divagazioni ma oggi voglio raccontarvi il suo punto di partenza...

Di seguito trovate l’immagine di una particolare forma che fa parte della geometria euclidea: la spirale quadrata. 
Ma quale è la legge che ha generato quella immagine? 
Il tutto nasce dal punto, tra due punti si genera un linea.
Ora partendo da un qualsiasi quadrilatero se tracciamo delle linee lungo i lati ma in maniera non parallela, ma in modo che ogni linea si scosti sempre della stessa misura rispetto al perimetro, avremo la formazione di numerosi quadrilateri sempre più piccoli. Ma ciò che salterà agli occhi è che nei punti corrispondenti ai quattro spigoli dei rettangoli si è formata in realtà una spirale quadrata.


Con la stessa tecnica si potrà creare una spirale triangolare, partendo da un triangolo appunto.

Analogamente avviene anche per figure geometriche con più di quattro lati.

L’unione di queste due tipologie di spirale permette la formazioni di disegni quasi irreali, rispondenti invece ad una precisa regola geometrica.
 

E' sempre Franz a divertirsi ad inserire alcune forme generate da un cubo all'interno di una sua personalissima striscia a fumetti i cui protagonisti sono Sisine e Martemè....





Vedremo se prossimamente l'architetto Franz Falanga avrà ancora voglia di parlarci della genesi della forma...

venerdì 25 marzo 2016

Venezia: compleanni storie e nostalgie.

La tradizione veneziana vuole che il 25 marzo si ricordi la fondazione della famosa città lagunare, divenuta in breve tempo una tra le città più importanti d'Europa e unica nel mondo per il suo assetto urbanistico ed architettonico.

Ben presto Venezia divenne anche capitale di una Repubblica dalla storia senza eguali al mondo, con bandiera, territorio, moneta e leggi.

La nascita della città lagunare si fa risalire al 25 marzo 421 quando a Rivo Alto venne eretta la chiesa di San Giacomo, sulle sponde dell'attuale Canal Grande, per volontà e impresa di un famoso carpentiere quale voto per essersi salvato da un incendio.



Nel giorno del compleanno della città lagunare vi propongo un recente racconto dell'amico e architetto Franz Falanga. Una  una storia nostalgica, una di quelle storie che con il passare del tempo andrebbero altrimenti perse e dimenticate.



NOSTALGIA CANAGLIA

Sto parlando della mia nostalgia di Venezia. Ieri sera, prima di andare a nanna, mi sono fatto un nostalgico ripasso di fatti che mi legano a filo doppio a Venezia. Pensavo alla parola “zattere”.

All’oggi le Zattere sono una bellissima fondamenta che dà sul Canale della Giudecca, che è costellata da deliziose pensioni, da gran bei bar dove con i miei colleghi dell’IUAV, tantissimi anni fa si andava a berci qualche ombra e a lumare le pupe. Alla luce di questa  mia nostalgia, vorrei raccontarvi perché si chiamano “Zattere”.

Come molti di voi sanno, le fondazioni dei palazzi veneziani sono formate da centinaia di pali conficcati nel fondo della laguna. Questi pali i veneziani andavano a tagliarli nei boschi sulle alpi, dalle parti di Feltre, preferibilmente nelle zone boscose esposte a nord. Era importante  che gli alberi fossero, fin dalla nascita, sottoposti ad una grande umidità. Tagliati i tronchi, formavano con essi delle grosse “zattere” che poi lasciavano andare nel Piave e negli altri fiumi che sfociavano nei dintorni di Venezia. Arrivate in laguna, le zattere venivano tirate sul bagnasciuga del Canale della Giudecca e colà  lasciate per almeno un paio di anni, perchè in questo modo, ogni sei ore venivano ricoperte dall’alta marea per poi tornare in secco con la bassa marea. Questo va e vieni di acqua, faceva, come dire, abituare i tronchi a vivere e a stagionarsi nell’acqua senza soffrire.

Passati gli anni era arrivato il momento di piantare sul fondo del mare, in laguna, questi tronchi uno aderente all’altro. E qui la grande professionalità, il magnifico magheggio  dei piantatori di tronchi. Si  usava una barcone con il fondo piatto dove venivano caricati diversi tronchi. Gli uomini che lavoravano su ogni barcone erano due. Ogni barcone aveva una grossa pietra cilindrica del diametro di una quarantina di centimetri, pesante una mezza quintalata. La pietra era fasciata da due cravatte di ferro, alle quali erano a loro volta saldate quattro maniglione, due per parte. Con una tecnica particolare della quale vi parlerò un'altra volta, questi due piantatori di pali prendevano la pietra tenendola per le maniglie e picchiavano su un accrocco  di pali legati a prua in una maniera particolare e così, bum bum, un paio di  mazzate dietro l’altra, infilavano i pali nel fondo marino.

A qualcuno piacerà sapere  che canzone usavano cantare i battipali durante le loro lunghissime ore di pesante fatica. Vi scrivo qui le nobili parole di questa canzone, che potrebbe essere considerata l’inno ufficiale dei piantapali così come la Marsigliese è l’inno ufficiale della Francia.

Eccovi dunque il testo: “Il cueo de mio nonno ha tratto un subio, bum bum (due colpi di pietra) che i pescaori in mar credea marubio, bum bum, il cueo de mio nonno ha tratto un subio, bum bum, che i pescaori in mar credea marubio”.
Pausa e poi si ricominciava a picchiare sull’accrocco, finchè il palo non era stato infilato in acqua e nel fondale a regola d’arte.

Per i non veneziani traduco le gentili parole della canzone. “Il culo di mio nonno ha fatto un peto, che i pescatori in mare credevano fosse un maremoto, il culo di mio nonno ha fatto un peto eccetera eccetera.

Ecco che cosa ho pensato ieri sera in preda ad una furibonda nostalgia della venezianità che conosco bene così come ben conosco la baresità. 
franz falanga

mercoledì 17 febbraio 2016

Questa pedemontana potrebbe diventare una magnifica porta d’ingresso alle Dolomiti: Franz Falanga racconta la pedemontana trevigiana.

L'amico e architetto Franz Falanga ci accompagna attraverso la pedemontana trevigiana. Barese di nascita e veneto di adozione, vive e conosce queste terre che descrive in questo suo scritto.
Una semplice ed essenziale guida "urbatettonica" della pedemontana trevigiana
Franz userebbe la parola "urbatettonica", come del resto fa nel testo, per unire l'aspetto urbanistico ed architettonico.

La pedemontana vista dal selciato del Tempio del Canova a Possagno


IL MIO GRANDE VENETO

Grande una volta, all'oggi è diventato come il resto dell’Italia, una spaventosa colata di cemento, di mattonelle e di asfalto. Tutte le strade che vanno dalle Prealpi alla pianura padana, una volta avevano la pavimentazione a selciato, in seguito sono state tutte asfaltate. Per questa ragione, quando piove, l’acqua arriva con gran velocità in pianura. Invece, quando c’era il selciato, l’acqua era drenata dalla pavimentazione delle strade e in pianura ne arrivava poca e lentamente. I boschi all'oggi quasi tutti non hanno più la manutenzione dell’uomo, per cui il sottobosco si è sempre più gonfiato con foglie secche, ramaglie e quant'altro, che hanno fatto diventare la terra sotto gli alberi come fosse gomma piuma per cui il terreno anziché bersi o drenare le acque piovane se le tiene in superficie, per cui in questa regione, le Prealpi, dove prima le nebbie erano rare, oggi sono aumentate di intensità.
In tutto questo disastro si salva la pedemontana dove abito io. Parliamo dal punto di vista urbatettonico. Partiamo da Crespano del Grappa, attraversando Possagno, Cavaso del Tomba per arrivare fino a Pederobba. Questa lunga stringa, una ventina di chilometri, è fortunatamente restata fuori dalle devastazioni urbanistiche e speculative, per cui il paesaggio si è relativamente salvato. Per esempio la case sono tutte  a due tre piani, per cui, quanto meno, c’è un’omogeneità dimensionale. La caratteristica ahimè negativa è che tutta questa zona ha una manutenzione scadente.
Basterebbe rifare il manto stradale, attualmente completamente rappezzato, ritinteggiare le architetture e le edilizie, che comunque non sono invasive, e fare inoltre qualche restauro ben fatto. A proposito di restauro, a Possagno c’è un vecchio albergo credo risalente ai primi del novecento in stato di totale abbandono da una quindicina di anni. E’ di rara bellezza e semplicità, Bianco e con due grossi portoni con doghe diagonali in legno dipinto di azzurro, così come d azzurro sono dipinti i serramenti esterni. Il bianco e l’azzurro ormai sono stati malmenatati dal tempo, basterebbe  quanto meno ridipingere l’esterno così com'era e inoltre renderlo di nuovo abitabile. Non so come siano le condizioni degli interni, mi dicono che sono state vandalizzate. Pensate che il grande mobile/bancone del bar è un meraviglioso esempio di liberty. Mi verrebbe da dire che vale quasi quanto l’albergo. E nessuno fa niente. La vita scorre tranquilla qui in questa bellissima pedemontana, senza guizzi culturali interessanti e continui. Pensate che a Possagno si trova la Gipsoteca del Canova che è nato a Possagno. Vedo dei pullman con anziani e qualcuno con scolaresche che, lentamente e senza alcun entusiasmo, vanno a vedere i gessi del Canova. Una parte della Gipsoteca è stata progettata da Carlo Scarpa. Sto parlando un turismo inefficace mordi e fuggi.
Questa pedemontana potrebbe diventare una magnifica porta d’ingresso alle Dolomiti, e invece no. Per esempio a Cavaso c’è una splendida chiesa romanica alla quale, ai primi del novecento “incollarono” sula facciata originale una facciata tardissimamente barocca  e nascosero l’abside in un bussolotto di mattoni. Credo che la stessa cosa sia capitata alla chiesa di Pederobba. Nel Veneto non ci sono molte chiese romaniche e, quelle che ci sono, sono bellissime,  valga per tutte la superba chiesa romanica di Caorle, che ha un campanile rotondo staccato dalla chiesa e sistemato esattamente di fronte alla facciata, una rarità.  Nella Pedemontana già si possono notare le prime avvisaglie formali delle architetture alpine in certi particolari di ferri battuti, in certe guglie di campanili con la cuspide a cipolla e in tanti cancelli in legno in tutto simili a quelli della Val Gardena.
Questa Pedemontana si affaccia, guardando verso Nord,  a destra sulla Feltrina/Piave che è una delle due  vie di accesso alle Dolomiti mentre la seconda si trova a una ventina di chilometri sulla sinistra andando verso Bassano del Grappa bagnato dal Brenta a sua volta contrappuntato dalla Valsugana. Quindi la posizione è strategica ed è da valorizzare in ogni modo. Per intenderci, Bassano del Grappa e Feltre sono due bellissime cittadine. Se unissimo Bassano a Feltre e tutte e due ad Asolo a Sud, avremo uno splendido triangolo ancora fortunatamente poco contaminato, rispetto all'intero Veneto. Bassano, Feltre ed Asolo meritano un visita accurata e gradevolissima. Fermo restando che il nucleo centrale di questo triangolo, a ridosso delle Prealpi parecchio gradevole, lo ripeto, è formato, Giardinello, venendo da Bassano, da Crespano del Grappa, da Possagno, da Cavaso del Tomba e da Pederobba.
Purtroppo questa stringa delle magnifica Pedemontana è assopita, dormicchia. Mentre potrebbe ruggire e potrebbe filtrare tutti quelli che vanno sulle Dolomiti d’inverno e d’estate. Lo ripeto, fortunatamente la speculazione edilizia qui non è arrivata. Forse perché i valligiani sono un po’ pigri. Càpita in urbanistica. 
A Bari la speculazione, specialmente nella zona ottocentesca è stata devastante, mentre a Trani magnifica cittadina sul mare Adriatico, a circa quaranta chilometri a nord di Bari, essendo i tranesi un filino più “pigri” come i miei pedemontani, sono riusciti a non devastare il loro bellissimo centro ottocentesco.
Questa è la situazione.
franz falanga

L'ala Scarpa della Gipsoteca di Possagno

martedì 26 gennaio 2016

Franz Falanga - A proposito della comunicazione

Da un po' non parliamo del caro amico ed architetto Franz Falanga... Di certo con il caro Franz non mancano gli incontri, le chiacchierate, gli spunti di riflessioni su tanti, tantissimi temi, dalla musica alla politica, dall'architettura al disegno, dalla scrittura alle radio.
Il tema della comunicazione è uno di quelli a lui più caro. Dopo aver letto uno dei miei ultimi post dedicato proprio a questo tema, ne è scaturito un confronto e qualche riflessione. E' stato inoltre lo stimolo per ospitarlo nuovamente nel blog con una sua riflessione sulla comunicazione ai nostri tempi, che rappresenta anche la presentazione di un suo libro sul tema. 


Un fantasma si aggira per l’Italia, le comunicazioni di massa. Esse sono caratterizzate da un’anomalia difficilmente estirpabile, da un equivoco di fondo difficilmente risolvibile. L’equivoco del quale sto parlando è l’errata convinzione che noi si viva in uno straordinario periodo epocale dove le comunicazioni di massa siano dedicate al benessere della collettività. Nulla di più falso.
I meccanismi dell’informazione e della comunicazione sono attualmente utilizzati in maniera distorta, nel senso che, anziché privilegiare il benessere dell’intera società, privilegiano una ristretta corporazione di persone. Con il trascorrere degli anni, a partire dall'invenzione del telegrafo senza fili, diventato in seguito radiofonia e quindi televisione, la comunicazione è diventata sempre più appannaggio di pochi addetti ai lavori a fronte di moltitudini tenute ad arte nella più totale disinformazione.
Un plateale esempio di un uso distorto della comunicazione è osservabile nell'universo politico italiano drammaticamente diviso fra due contrastanti visioni del mondo, la destra e la sinistra. Nella prima i meccanismi comunicativi sono ben oleati e straordinariamente funzionanti, ancorché ripetitivi e prevedibili, nell'altra i meccanismi in questione sono impegolati in una visione dei rapporti con gli avversari politici quanto meno disarmante. Il dilemma è cornuto: riuscire a bonificare questo meccanismo perverso, oppure no. franz falanga
Franz Falanga. 
A proposito della comunicazione / Come perdere con assoluta certezza le elezioni.
ARMANDO EDITORE / ROMA
2009

giovedì 23 luglio 2015

ancora una volta Franz Falanga e le invarianti in architettura


Più e più volte su questo blog abbiamo ospitato il tema delle invarianti in architettura. Dico ospitato in quanto il fautore di questa teoria, promossa in primis da Bruno Zevi, è l'amico e architetto Franz Falanga
Sul blog trovate articoli, link e approfondimenti sul tema, scritti e pensati da e con Franz.
E' con le sue parole che oggi voglio presentarvi e segnalarvi un nuovo passo compiuto da Franz, un nuovo sito web dedicato proprio al tema delle invarianti in architettura.



Sono molto contento perché finalmente ho dato una veste informatica alla mia teoria sulle Invarianti nell’architettura. E’ un argomento che mi segue  da parecchi anni e che finalmente vede la luce online. Ho impiegato molto tempo, molti anni e molte mie forze per mettere a punto questa teoria, che adesso funziona benissimo.  Il problema ora è come farla camminare da sola per le vie della cultura architettonica italiana.

Il mio lavoro prende le mosse da un’idea brillantissima che nei primi anni settanta ebbe Bruno Zevi, uno dei pilastri delle cultura architettonica italiana, che era mio professore. Da qualche giorno questo sito è online e devo ringraziare per questo un mio carissimo  amico di lunga data, l’informatico Michele Zavarise della Digisystem, e, tra l’altro,  fisarmonicista jazz di vaglia.

L’indirizzo è facilissimo eccovelo qui: www.franzfalanga.it  Mi piacerebbe che con tutti i vostri comodi gli deste un’occhiata e che eventualmente  spediste il link  a qualche vostro amico o amica architetto. Le cose vanno coltivate e seguite, senza mai lasciarle da sole.
franz falanga

architetto Franz Falanga

martedì 14 luglio 2015

una particolare “mutazione” del design

Ho il piacere, ancora una volta di ospitare l'amico e architetto Franz Falanga, con una sua interessantissima riflessione sui cambiamenti del mondo del design dal titolo una particolare “mutazione” del design.



La storia dell’umanità è costellata da Mutazioni. Le mutazioni sono un fenomeno naturale di qualsivoglia gruppo sociale. Nell’ultimo secolo, il cosiddetto secolo breve, la frequenza delle mutazioni è aumentata notevolmente. Già questo notevole aumento, a sua volta, può essere ragionevolmente considerato  una Mutazione vera e propria.

Oggi vorrei parlarvi di una importantissima mutazione del Design italiano. Quando parlo del Design, intendo parlare della progettazione di oggetti commensurabili, utili all’uomo, di qualsivoglia dimensione, che vanno da una scatola di fiammiferi al restauro di una piazza di una metropoli e quant’altro.

Come si può agevolmente notare, il campo della creatività è notevolmente esteso ed esiste a vari livelli. Qui  entra in  scena la “creatività” che, come si sa, nulla ha a che fare con la “fantasia”. La fantasia è la capacità che ognuno di noi ha, quando, chiudendo gli occhi, “immagina” di trovarsi sulla Luna, nel Mare della Tranquillità. La creatività è invece la capacità di progettare e costruire quello che si è precedentemente fantasticato, per esempio un modulo lunare che poi allunerà nel mare di cui abbiamo parlato dianzi. 

La creatività italiana, nel campo del design, si è subito affiancata alla civiltà industriale, ormai abbondantemente  consolidata, alla fine del 1800. Non ho nessuna intenzione di scrivere una storia del design industriale in Italia. E’ mia intenzione invece parlare di una impressionante Mutazione che ha interessato particolarmente il campo del design italiano. Dal 1900 al 1945 la nostra creatività è stata notevole, si pensi alla “Topolino” della Fiat. Ma a me interessa, per non ampliare troppo il brano che sto scrivendo, parlare della rinascenza italiana nell’immediato dopoguerra, anche perché chiunque dovesse leggerci, dai grandicelli ai giovanissimi, certi celeberrimi oggetti del design italiano sono ancora salvati nella memoria collettiva. Penso, ad esempio, alla mitica Vespa della Piaggio, progettata dall’ingegnere Corradino D’Ascanio, uscita nel 1946, seguita a ruota, l’anno dopo, dall’altrettanto mitica Lambretta della Innocenti, uscita nel 1947, progettata dagli ingegneri Pier Luigi Torre e Cesare Pallavicini. I tre ingeneri, D’Ascanio, Torre e Pallavicini, guarda caso, erano tutti e tre ottimi ingegneri aeronautici. 

Non siamo ancora arrivati alla mutazione. Per poterla fra poco inserirla in un particolare scenario culturale italiano, ho pensato di elencarvi preliminarmente i grandi creativi del design italiano, così come mi sono venuti in mente a partire dagli anni cinquanta fino ad arrivare agli anni ottanta novanta, anno più anno meno. Tutto ciò lo userò come preambolo alla sua Mutazione.

Mi scuso per le molte omissioni che certamente noterete, peraltro dovute alla mia scadente memoria. Ed eccovi dunque una lista di nomi nell’ordine in cui mi venivano in mente, Si tratta di architetti e di designer che hanno rappresentato l’aristocrazia della creatività italiana dagli anni cinquanta fino all’ultimo decennio del secolo scorso, anno più anno meno.

Sto dunque ricordando a voi, gentili lettrici e gentili lettori, e a me, Ignazio Gardella, Salvatore Fiume, Lucio Fontana, Vincenzo Monaco, Amedeo Luccichenti, Marcello Nizzoli, Berizzi Buttè Montagni, Franco Albini, Luigi Caccia Dominioni, i fratelli Castiglioni, Bruno Munari, Pierluigi Spadolini, Franca Helg, Marco Zanuso, Alberto Rosselli, Gio Ponti, Enzo Mari, Dino Gavina, Carlo Scarpa, Ernesto Nathan Rogers, Enrico Peressutti, Michelucci, Roberto Gabetti, Aldo Rossi, Vittorio Gregotti, Isola, Canella, Umberto Riva, Giotto Stoppino, Lodovico Meneghetti, Leonardo Ferrari, Sergio Asti, Gae Aulenti, Cesare Cassina, Ernesto Gismondi, Ettore Sottsass, Afra e Tobia Scarpa, Cini Boeri, Joe Colombo, Mario Bellini, Adriana e Alessandro Guerriero , Alessandro Mendini, Lapo Binazzi, Franco Raggi, Michele De Lucchi, Alberto Alessi, e qui mi fermo.

Va immediatamente detto che in questo periodo storico, in TUTTE le città Italiane fiorirono degli straordinari negozi di arredamento che ospitavano il fior fiore del design italiano. Ricordo molto piacevolmente che questi negozi erano visitati con grande interesse dagli architetti del luogo e da persone che apprezzavano il bello nelle sue migliori espressioni formali e funzionali.

Fin qui la normalità dunque, se, per nostra comodità, così vogliamo chiamarla.
Un bel giorno però avvenne che, quasi contemporaneamente, scaddero moltissimi brevetti delle grandi marche dei celebrati costruttori di oggetti per l’arredamento, per cui il risultato fu che ogni fabbrichetta improvvisata o fabbrica non proprio dedicata all’argomento, iniziarono a produrre mobili che non erano altro che la brutta copia dei mobili fin ad allora ammirati ed esposti nei magnifici e coltissimi negozi di cui sopra. Ho visto poltroncine di Le Corbusier e oggetti di altri formidabili designer, ridotti a  bruttissime copie degli originali.

A questo fenomeno si unì poi un’idea brillante che entrò di taglio nell’immaginario collettivo per poi comodamente sistemarsi di largo, idea che “eccitò” la fantasia di molti “artisti” (sarebbe meglio chiamarli artistoidi), che con l’arte non avevano nulla a che fare. Costoro, infatti, proclamarono ai quattro venti che il design, tout court, apparteneva di diritto all’Arte. In questo furono assecondati da critici d’arte senza scrupoli, che, per esempio, fecero di tutto per cancellare nei loro studenti la domanda delle cento pistole che consisteva nel chiedere ai prof quale fosse il “ruolo” dell’artista nel mondo contemporaneo.

Su questo brutto momento si potrebbero e si dovrebbero  scrivere importanti lavori dedicati. L’affermazione che il design ormai apparteneva di diritto alla categoria dell’arte, fece proliferare una infinita infinità di orrori, parlo, ad esempio, di improbabili sedie che a tutto servivano tranne che a poter essere utilizzate come sedie, letti che tutto erano tranne che letti, per non parlare di oggetti di uso comune che avevano improbabili forme e inesistenti funzioni. Tutto questo “nuovo” era avallato dai soliti critici d’arte ed esteti del momento.

La MUTAZIONE si era finalmente appalesata, nel senso che i nomi dei creativi, che vi ho dianzi elencato, furono rapidamente dimenticati, i negozi di arredamento diventarono polverosi e non più frequentati da specialisti e da amanti del bello e del giusto costruttivo, per cui, nel giro di pochissimo tempo, questi magnifici negozi sparirono dalla circolazione.

Iniziarono sulle televisioni pubbliche e private (e ancora continuano) a furoreggiare spot pubblicitari televisivi orrendi e, come dire, elaborati da persone e artisti che avevano dentro di sé il vuoto pneumatico.

Un ramo importante dell’inscape, del paesaggio interno, per intenderci, era stato ahimè cancellato e il vuoto che si era prodotto fu rapidamente riempito dalla bruttezza e da espressioni e slogan gaglioffi che con “l’arte e con il design” nulla avevano da spartire.

Frattanto, nella stesso periodo, stiamo parlando della fine del novecento, veniva allo scoperto il malgusto che ormai si era impossessato anche dei piani alti della politica, lasciando il passo a cialtroni e guitti di ogni risma. E così il cerchio si è chiuso e la Mutazione si è definitivamente consolidata. 

franz falanga


1947 . Vespa

Olivetti . MC24 Marcello Nizzoli
  
Olivetti . Lettera22

Castiglioni brothers . Lampada Taccia

Olivetti Underwood . Programma101

giovedì 18 giugno 2015

quante sono per te le forme d'arte?

Qualche tempo fa le amiche Annika ed Alma di Villacolle, innovativa esperienza scolastica attiva a Bari che vi ho presentato tempo fa, mi hanno fatto una richiesta: “Stiamo riflettendo, su cosa s'intende per forme d'arte... nel nostro metodo non si vuole escludere nessuna componente artistica... quindi ho bisogno di aiuto e di capire come la pensano altre persone che ritengo competenti”.
Da questa domanda è scaturita una riflessione ed un testo che ho inviato loro e che fa parte di una ricerca importante e finalizzata alla pubblicazione del loro metodo e su cui stanno ancora lavorando.
Mentre auguro ogni bene ad Annika ed Alma, oggi voglio condividere con voi quel testo e quelle riflessioni.


quante sono per te le forme d'arte?

Nel linguaggio contemporaneo la parola arte rappresenta qualsiasi attività, attraverso la quale l’uomo comunica la propria creatività attraverso le più svariate forme espressive, siano esse parole, immagini, suoni.
Quello che possiamo dire con certezza è che l’arte si esprime attraverso differenti discipline.  Conosciamo tutte quelle classiche dalla pittura, alla musica, dall’architettura alla scultura, dalla letteratura alla danza.
Molte sono le catalogazioni dell’arte che nel tempo si possono contare: arti maggiori (nove o dieci ) da cui emanano le arti minori, per tipologia, per senso.
Ma quale di queste infinite catalogazioni già realizzate o realizzabili andrebbe presa come riferimento universale?
Domande la cui risposta sembra non avere risposta e alla quale potremmo aggiungere facilmente altre due domande. Chi è un artista? E ancora ma artisti (o creativi) si nasce o si diventa?
Certo potremmo soffermarci sulla necessità di approfondire gli aspetti tecnici di ogni singola disciplina o il contenuto di messaggi trasmessi attraverso l’opera artistica ma anche qui non arriveremo a nessuna. Potremmo disquisire e sostenere questa o quella catalogazione delle discipline artistiche, senza venirne a capo mancando, per così dire un metro di misura per determinare cosa è arte e cosa no e di conseguenza quali sono le discipline artistiche.
Così procedendo ognuno potrebbe andare avanti all’infinito a girare attorno alla domanda, senza mai giungere ad una risposta concreta. Oppure ci troveremmo sommersi da una miriade di definizioni differenti, tutte (o quasi) corrette.
Concludendo mi verrebbe, senza averne però la completa convinzione, di sostenere la tesi per cui l’arte è ogni qualsivoglia forma espressiva visiva o figurativa, attraverso la quale trasmettere emozioni o messaggi agli altri, tutto questo indipendentemente da regole e schemi precostituiti di discipline o catalogazioni artistiche.
A questo punto però ci troviamo punto e a capo. Qualcuno potrebbe obiettare sostenendo la tesi, estremamente banale e vera allo stesso tempo, che il vivere stesso è un’arte. Ancora potremmo ritrovarci concordi sull’assenza di un linguaggio o pensiero artistico unico riconosciuto, così pure come l’assenza di un unico codice interpretativo.
Ma tant’è, questa è la mia risposta definitiva.




Note a piè pagina
Andando indietro nel tempo (2005), un esperimento di piccolo diario artistico poi abbandonato conteneva alcune riflessioni, una delle quali risulta affine alla domanda che mi è stata posta. 
Si trovano sempre nuovi argomenti, nuove cose da cui trarre ispirazione e da poter utilizzare per nuove sperimentazioni. Ma quel che più conta VIVI. Sono infatti le tue emozioni e i tuoi sentimenti che si trasmettono attraverso quello che cerchi di creare.

L’arte è tutto
L’arte è niente
Lo stesso VIVERE è un arte

Da profano permettetemi di gasarmi davanti a queste tre affermazioni.

La necessità di comunicare emozioni e sentimenti che provi sulla tua pelle si fa spazio nella tua mente, raccontare ciò che ti accade intorno diventa una necessità, ciò che vedi, respiri, tocchi non può avere solo questa o quella funzione. Un oggetto non risulta più solo funzionale e quotidiano ma acquisisce nuovi significati, diventa simbolo, esce dalla sua quotidianità. 




sabato 18 aprile 2015

Franz Falanga e il Maestro Carlo Scarpa

Oramai non si contano le chiacchierate e le conversazioni con l'amico e architetto Franz Falanga, durante le quali emergono storie, racconti, aneddoti. Uno di questi riguarda Franz Falanga ma non nella qualità di professore come ho imparato a conoscere ma esattamente dall'altra parte della barricata, cioè Franz Falanga allievo nel suo confronto niente po' po' di meno che con il Maestro Carlo Scarpa.
Ho chiesto a Franz di riscrivere questo racconto per poterlo pubblicare ed avere una nuova testimonianza di due personaggi quali sono Franz Falanga e Carlo Scarpa.


Carlo Scarpa


Ho avuto Carlo Scarpa come mio professore all’IUAV, nella seconda metà degli anni sessanta. Era sempre presente nelle ore destinate alle sue lezioni. Però dedicava queste ore non a lezioni sull’architettura ma alle correzioni delle esercitazioni degli elaborati dei progetti che ci faceva fare. Si imparava molto di più da una qualsivoglia correzione dedicata a un qualsivoglia argomento, che da una lezione dalla cattedra. I suoi assistenti si comportavano con lui in maniera estremamente devota e nulla più. Ho sempre pensato che loro, malgrado l’essere già di per sé laureati continuassero ad impara quotidianamente qualche cosa dal “professore”, così lo chiamavamo all’IUAV: “il professore”. 
Scarpa non era per nulla facile da controllare o da trattare, soffriva di simpatie e di antipatie. Uno studente gli era antipatico perché pur essendo bravetto aveva la faccia di uno che non aveva mai tastato il culo alle donne. Io, per esempio, non gli ero per nulla simpatico perché  detestava i colletti delle mie camicie, secondo lui troppo lunghi. In realtà lo erano, ma a me piacevano così, e inoltre, stranamente, non aveva alcuna simpatia per il meridione d’Italia, zona dalla quale provenivo. 
In compenso qualunque situazione accadesse mentre era con noi studenti, lui era capace di osservarla ad alta voce con l’animo dell’architetto e qui era addirittura entusiasmante. Ricordo che un giorno a Caorle, dove eravamo andati guidati da lui per individuare delle zone dove poi ognuno di noi  avrebbe dovuto realizzare qualche cosa, mentre eravamo per la stradina principale del Centro storico, che in pianta può essere paragonato  ad un pesce allungato, con,  al posto della lisca, la stradina di cui sopra,  si fermò di colpo e, ci indicò sulla pavimentazione di porfido un fiammifero spento proveniente da una bustina di Minerva. 

Il lungomare di Caorle . 2014 . foto di giorgio de luca

Qualcuno ricorderà che, negli anni sessanta, i fiammiferi delle bustine di Minerva erano colorati con degli improbabili colori che andavano dal color fegato a dei viola assurdi che più artificiali e orrendi non si può. 
Lui si fermò, chiese a qualche alunno se invece avesse dei fulminanti in legno, e avutolo, lo sfregò sulla scatola, lo fece bruciare per qualche secondo  e poi lo spense e buttò sul porfido molto vicino insieme al fiammifero color viola. 
E lì ci tenne per una oretta parlandoci di come i materiali si debbano accostare fra loro sempre con molto rispetto, per esempio il pezzettino di legno bruciato sul porfido era mille volte meglio che il fiammifero color viola che era lì per terra. Quindi il legno, nobile materiale, la pietra nobile materiale, il ferro nobile materiale, ed altri materiali altrettanto nobili non evidentemente nobili come l’oro ma molto di più ma  in quanto usati dall’uomo nel corso dei secoli sempre in maniera diversa. 
Gli studenti, evidentemente, erano rapiti dalla presenza di una tale personaggio e si sforzavano tutti di disegnare come Scarpa, di usare gli stessi cartoncini rosa pallido usati dal professore, di usare addirittura la tecnica dei “peletti” che servivano ad evidenziare una forma anzichè un’altra, si servivano dei pastelli colorati come Scarpa, e quando una parte del progetto pareva funzionasse lo fissavano sul cartoncino color rosa per poi continuare con altri tentativi, insomma una velatura dopo l’altra. 
A me quello sfacciato scarpeggiare dava molto fastidio, per cui utilizzavo fogli bianchi, evidenziavo le forme con matite nere morbidissime tipo la 6B, non usavo colori e non fissavo mai nulla sul cartoncino. 
Io ebbi l’incarico di progettare un bar a Caorle vicino la chiesa romanica con il campanile rotondo davanti la facciata, su un prato immediatamente sotto l’argine che difendeva Caorle dalle alte maree.

Il Duomo di Caorle . 2014 . foto di giorgio de luca

Progetto di estremo interesse per me, ma non per il professore. Ogni volta che gli portavo gli elaborato per una correzione, lui guardava i disegni esposti  e fissati con il nastro adesivo su pannelli di legno, e, quando andava bene, mi diceva e questo che cosa è? Indicandomi un punto nel disegno e con il bastone con la estremità di gomma, quella che toccava terra mi stracciava il disegno facendolo cadere per terra.
Carte tieni tu, carte tengo io si dice in Puglia, terra dalla quale provengo. La cosa certamente mi metteva in grosse difficoltà, non tanto perché avrebbero scoraggiato un bisonte,  ma perché si è ripetuta per ben tredici volte prima di fare l’esame, finché un giorno di novembre, andai nel suo studiolo all’IUAV e, in presenza dei suoi devotissimi assistenti gli dissi che tredici esami prima di arrivare alla laurea avevo iniziato a portargli i miei elaborati del bar di Caorle, che erano passati due anni, che io avevo superato altri tredici esami e che  di lì a due giorni mi avevano  fissato il giorno della laurea con il professor Samonà, per cui io dovevo fare con lui l’esame assolutamente il giorno dopo. Lui mi guardò, disse che sì. Facendosi sentire anche dagli assistenti perché venissero anche loro. 
Io tutto contento me ne tornai a casa, addirittura prima di prendere il traghetto di San Tomà offrii da bere a un paio di gondolieri per la bella notizia, avendomi concesso il “professore” di fare il giorno dopo  il mio esame. La mattina dopo, a primissima ora andai nell’aula magna dei Tolentini, incollai tutti i disegni ai pannelli e aspettai le undici, a quell’ora precisa mi aveva detto il professore di presentarmi. 
Già dalle dieci si era raccolta nell’aula una enorme folla di studenti ai quali si era aggiunta una ventina di gondolieri miei amici, Falanga fa l’esame con Scarpa, finalmente Falanga ce l’ha fatta, andiamo a vedere come Scarpa farà a pezzi Falanga
Il professore alle undici in punto arrivò, si fece portare dal bidello un bicchiere di wisky con cubetti di ghiaccio, poi, senza  degnarmi di uno sguardo, iniziò ad andare avanti e indietro davanti ai disegni facendo tintinnare il ghiaccio nel bicchiere, unico rumore in quel momento ascoltabile in quell’aula improvvisamente silenziosa piena di studenti attoniti, di gondolieri che tifavano per me in silenzio e con me silenzioso ma calmo che pazientemente aspettavo. Non avevamo nulla dirci io e il professore. Lui aveva  osservato i miei disegni per quasi due ora, era arrivato  il momento di concludere.  Si era fatta l’una, il professore aveva terminato il wisky, si fermò fece un cenno ai devoti assistenti e si ritirarono tutti nella studiolo del professore per decidere sul mio destino. 
La porta dello  studiolo si aprì finalmente alle quattro meno un quarto  del pomeriggio, nessuno degli spettatori se ne era andato via, lo spettacolo era impagabile, si aprì la porta dicevo, uscì l’assistente architetto Soccol, che mi guardò con ammirazione e con benevolenza e poi, in strettissimo veneziano mi disse: “Ciò faeanga, bàsighe l’anèo al professor, te ga dà disdòttoFalanga bacia l’anello al professore, ti ha dato diciotto. 
L’applauso fu liberatorio per tutti, tutti sfollarono ed io mi ritrovai solo nell’aula magna dei Tolentini con i miei elaborati dell’esame da togliere da sopra i pannelli, arrotolarli, legarli con un legaccio e quindi andarmene verso casa. Il giorno dopo dovevo laurearmi, quindi dovevo preparare tutto il materiale per la laurea, disegni, plastico e fotografie del medesimo.  
Verso le quattro e mezzo di pomeriggio, era una fresca seretta novembrina il sole era coperto dietro le nuvole, presi il traghetto di San Tomà, salutato cordialmente dai miei amici gondolieri, arrivai dall’altra parte del canale, campo san Samuele e arrivai fino in campo Santo Stefano  dove c’è la famosa statua del cagalibri.  Dovevo attraversare il ponte dell’Accademia ed ero arrivato a casa. Passai quindi davanti il piccolo campo dove c’era il Conservatorio Benedetto Marcello. 
Senza pensarci neanche una volta, svoltai a sinistra attraversai il piccolo campo, entrai  nel conservatorio e chiesi in portineria se c’era per caso qualcuno in segreteria. Mi dissero che sì, al primo piano la seconda porta a destra. Salii bussai ed entrai in un ufficio dove c’era una giovane donna che mi chiese gentilmente cosa poteva fare per me. Le dissi che finalmente dopo due anni ero riuscito a fare il mio esame con il  professor Scarpa, sa sono uno studente architetto dell’IUAV, domani mi devo laureare. Io sono anche un pianista jazz dilettante, erano cinque anni che non suonavo più il pianoforte, sa io abito a Bari e ci andavo una volta o due l’anno, potrei farmi una suonatina da qualche parte su un qualsiasi pianoforte? Ne avrei proprio bisogno. La signorina si alzò, venga con me, facemmo tutto il corridoio, aprì una porta un po’ più grande delle altre e ci trovammo in una sala concerti con una pedana circolare al centro. Sulla pedana c’era, tipo Ferrari, un pianoforte a coda intera marca Petrof. Prego, si accomodi mi disse e se ne andò. Io poggiai per terra il rotolo dei disegni, mi tolsi la giacca, stetti per un attimo fisso a guardare i denti bianchi e neri del mostro che avevo sotto le mani, e cominciai a suonare suonare suonare. Non ricordo una nota di quello che avevo suonato, so solo che smisi dopo un paio di ore. Si era fatta seretta, uscii, la segretaria era andata via, ringraziai la portineria e ripresi la via che mi conduceva dall’altra parte del ponte dell’Accademia. Il ponte era sempre lì. Il fresco era diventato frizzantino ed io arrivai sull’altra riva del canale in souplesse. 

Il giorno dopo mi sarei laureato architetto alle due di pomeriggio e la sera alle venti e trenta avrei preso la Freccia della Laguna per arrivare a Bari alle sette del mattino dopo con un paio di valige pesantissime piene di libri e con una ridicola corona d’alloro intorno al collo. Chiamai un porteur e gli dissi se mi dava una mano fino a via Celentano 82. Il porteur mi disse di sì. Legò le due valige con una cintura per pantaloni la mise sulla spalla, una valigia davanti e una valigia dietro e partimmo alla volta di via Celentano 82 dove abitavo. Durante il tragitto mi chiese che cosa significasse quella corona di alloro intorno al collo ed io gli dissi che il giorno prima mi ero laureato architetto a Venezia. Arrivammo davanti la porta di casa, al secondo piano, gli chiesi quanto gli dovevo e lui mi disse: “architetto offre la casa” e se ne andò. Suonai il campanello e aspettai che qualcuno mi venisse ad aprire, non avevo detto loro che in quel periodo mi stavo laureando. 
franz falanga


Alcuni scatti dell'ultimo esame e della tesi di Franz Falanga, alla presenza di Giuseppe Samonà e Carlo Scarpa.